Diffuso in passato specialmente nei motori da competizione, come le mitiche Auto Union (il marchio poi confluì nel Gruppo Audi-DKW-Horch…) progettate da Ferdinand Porsche, il “Volumetrico” ha fatto veramente meraviglie. La prima (nel 1932) sovralimentata con un compressore Roots, fu una 16 cilindri a V di 45° di 4,4 litri, che era in grado di erogare 295 CV a soli 4500 giri/’.
Successivamente il team di Porsche generò altri capolavori di ingegneria, fino alla straordinaria “Tipo D” V12 di 3,0 litri (che venne portata in gara nientemeno che da Tazio Nuvolari), con distribuzione a tre alberi a camme e sovralimentazione a doppio Compressore, capace di erogare addirittura (pensate che eravamo nel 1938!) ben 485 CV a 7000 giri/’. Verso la fine del secolo scorso, il Volumetrico si è rivisto nella Fiat Argenta (datata 1984), ma soprattutto nelle versioni “Kompressor” della Mercedes, nella Jaguar XJR, nella Lotus Elise 240R e nelle Volkswagen G60 (Golf e Corrado, tutte degli anni 90).
Il turbocompressore ha avuto la meglio
Concettualmente, il Compressore Volumetrico è abbastanza semplice: come il turbocompressore ha il compito di comprimere l’aria aspirata per renderla più densa e farne entrare così una maggior quantità nella camera di combustione per elevare la potenza prodotta dal motore. La differenza sta nel fatto che il turbo aumenta le prestazioni senza assorbire potenza, mentre col Volumetrico il miglioramento ha un costo.
Il primo sfrutta, infatti, l’energia dei gas di scarico roventi (che altrimenti andrebbe sprecata) per muovere una girante coassiale a una turbina che comprime l’aria, mentre il secondo prende il moto dall’albero motore (con una cinghia dentata, una catena, oppure tramite ingranaggi), dal quale inevitabilmente sottrae un’aliquota di potenza, che può pure diventare rilevante.
Quelli più comuni sono quattro
Nello specifico, il Compressore Volumetrico lavora con un volume definito di aria (da qui il nome) e quindi ne comprime sempre la stessa quantità in base al regime di rotazione: maggiore è il regime, maggiore è la massa d’aria che viene compressa.
Quelli che seguono sono i tipi più utilizzati: il Roots o a lobi (composto da una coppia o più di rotori dalla forma a “fagiolo” che ruotano all’interno di un carter anch’esso conformato “a fagiolo”, su assi paralleli “attorcigliati” su loro stessi); il Twin Screw (composto da due viti di passo inverso “ingranate” una nell’altra, la cui cavità si sposta diminuendo il volume e comprimendo il gas); il Compressore Scroll (utilizzato dalla Volkswagen, con due lunghe alette “a spirale” una all’interno dell’altra: la prima fissa, la seconda mobile, che con movimento planetario intrappolano, pompano e comprimono il fluido); infine, il Compressore Centrifugo (simile tecnicamente alle pompe centrifughe).
Più ombre che luci
La qualità principale del Volumetrico è, indiscutibilmente, l’assenza di ritardo di risposta (che invece affligge il turbo): essendo collegato direttamente all’albero motore, la pressione è disponibile in ogni momento alla minima variazione di regime. Inoltre, l’erogazione della potenza è fluida e lineare, senza le “botte di coppia” del Turbo, e si può sempre contare su una superiore spinta ai bassi regimi, essendo questo tipo di compressore sempre in presa.
Di contro, il Volumetrico introduce un po’ di complessità meccanica in più, a causa del maggior numero delle sue parti in movimento (il che implica, peraltro, una manutenzione più accurata). Per giunta, assorbe l’energia necessaria alla compressione dall’albero motore (che, dunque, utilizza parte della potenza che produce per azionarlo, riducendo l’efficienza del sistema). Tutto questo va a impattare negativamente sui consumi e sulle emissioni: per questo in tempi recenti, si è ovviato al problema affidando l’azionamento del Compressore a un piccolo motore elettrico