Lancia Beta Montecarlo, 50 anni di mito e un prezzo da collezionisti

Nel 2025 la Lancia Beta Montecarlo compie 50 anni. Da promessa incompiuta a regina delle gare: come è diventata una leggenda del motorsport italiano e mondiale

Foto di Manuel Magarini

Manuel Magarini

Giornalista automotive

Classe 90, ha una laurea in Economia Aziendale, ma un unico amore: la scrittura. Da oltre dieci anni si occupa di motori, in ogni loro sfaccettatura.

Pubblicato: 16 Aprile 2025 17:44

50 anni. Il tempo dei bilanci. Di ciò che è stato. E di quello che non tornerà. In un Paese lungo e stretto come il nostro – l’Italia – sono nate alcune delle auto più memorabili del Novecento. Una ha lasciato un solco netto: la Lancia Beta Montecarlo. Nel 2025 compie mezzo secolo. Ma non ha perso nemmeno un grammo di carisma. Auto così si scolpiscono nella memoria, curva dopo curva, con la polvere e l’olio. Ciò che le distingue è il carattere. E quello, lei, lo ha mantenuto intatto.

Anche chi non c’era ne ha sentito l’eco. Nei discorsi tra padre e nonno, nei garage dove passano storie e graffi, sogni e macchie d’olio. La Montecarlo è fatta di quella materia: memoria che resta. Nata per essere una creatura Fiat, finì per diventare Lancia e lì ribaltò il tavolo. Una svolta netta, tanto da risvegliare oggi i collezionisti e incendiare le aste.

Quando Pininfarina osò da sola

Fine anni Sessanta. Un Paese che risale, che sogna. Fiat saluta la 124 Coupé e cerca il passo successivo. La piccola X1/9 tiene alta la bandiera, peccato che manchi la scintilla finale: una vera sportiva, col motore nel posto giusto. Al centro. È qui che saltano gli schemi. In gran segreto, Paolo Martin disegna la X1/8: berlinetta a due posti, V6 da 3.0 litri, opera interamente firmata Pininfarina. Mai successo prima.

Poi arriva il 1973. E con lei, la crisi petrolifera. I piani saltano, la prudenza vince. Ma buttare via quel progetto sarebbe uno spreco indecente. Abarth prende in mano il futuro, costruisce un prototipo da corsa – la SE 030 – e lo schiera al Giro d’Italia 1974. Va forte, sorprende, quasi spaventa. L’unica a fermarla è la Stratos Turbo di Andruet e “Biche”. Un anno dopo, Ginevra: la Montecarlo è pronta. È vera. È Lancia.

La rivincita della Lancia Beta Montecarlo dopo la prima fredda accoglienza
Fonte: Ufficio Stampa Stellantis
La Lancia Beta Montecarlo ha avuto la sua rivincita dopo l’indifferenza iniziale

Muso basso, coda tronca, lama travestita da macchina: la Montecarlo non implorava applausi. Pretendeva rispetto. Zero cromature, solo un cofano opaco, quasi fosse un avvertimento. Sobrietà muscolare, scolpita nel metallo. Telaio monoscocca, 381 centimetri di lunghezza, 119 d’altezza. Una freccia sempre pronta a scattare.

Disponibile in versione Coupé o Spider, con le inconfondibili pinne posteriori. Nessun vezzo, una sfida all’aria. Sotto i 1.000 kg, e in mezzo il Lampredi 2.0, che batte più forte dei suoi 120 CV ufficiali. Negli Stati Uniti monta fari tondi a scomparsa, in Italia, fari rettangoli carenati. Due volti, una promessa: stile radicale. Dentro, atmosfera da pista: sedili avvolgenti, volante a due razze – poi sostituito da un Momo a tre – e cerchi da 13 pollici. Niente finestrini nelle pinne. Era essenziale, perentoria: prendere o lasciare.

Tre anni dopo, il richiamo delle competizioni. Lancia sigla un nuovo patto: Abarth per la meccanica, Pininfarina per il design. La base è la Montecarlo stradale, ma viene spinta oltre i propri limiti. L’aerodinamica si fa estrema: passaruota larghi, alettoni, appendici ovunque. La carrozzeria – Martini Racing, vetroresina pura – poggia su un telaio tubolare Dallara. Dell’originale resta appena il cuore. E quello, se provocato, fa il diavolo a quattro: un 4 cilindri turbo che sputa quasi 500 cavalli di rabbia compressa.

Una staffetta da campioni

Silverstone, 1979: il battesimo di fuoco. La Montecarlo incrocia Porsche 935 (oggetto di culto anche di Pablo Escobar) e BMW M1, pronte a schiacciarle con la forza tedesca. Sottovalutano la rivale, perché Lancia sfodera il carattere della fuoriclasse e, giro dopo giro, il Campionato Marche Divisione 2 Litri finisce nella bacheca di Torino. Antipasto leggero. Nel 1980 e 1981 alza due titoli mondiali assoluti. La Montecarlo diventa staffetta per piloti di razza: Hans Heyer, Riccardo Patrese. Markku Alén, Michele Alboreto, Attilio Bettega. Al Giro d’Italia 1980, una con Patrese e Alén, l’altra con Alboreto e Bettega. L’apoteosi.

Nel frattempo, sbarca la Serie II. Aggiornata, senza più agire da mina vagante. Adesso si chiama semplicemente Montecarlo, più diretta, più affilata. I cerchi crescono a 14 pollici, i finestrini nelle pinne posteriori riempiono un vuoto estetico. Ma soprattutto, nuovi freni. I vecchi entrano troppo presto, come un pugno sferrato a vuoto. I tecnici imparano a dosarne la forza. Eppure, i risultati della prima serie restano ineguagliati. Appena 1.940 esemplari venduti. La parabola si chiude, ma con dignità.

Il suo lascito brucia sottopelle nelle eredi. In testa, la 037. Stessa filosofia: compatta, nervosa, aggressiva. Stessi partner: Abarth per la meccanica, Pininfarina per il tratto, Dallara per il telaio. Un’evoluzione su base Montecarlo, il testimone più nobile che potesse passare. Nel 1983, la 037 vince il titolo iridato di rally, l’ultima a farlo con la trazione posteriore, davanti alle Audi 4×4.

Lancia Beta Montecarlo: 490 CV di puro carattere
Fonte: Ufficio Stampa Stellantis
La Lancia Beta Montecarlo da rally sprigionava fino a 490 CV: abbastanza per aggiudicarsi due titoli mondiali assoluti consecutivi

Gli onori, alla fine, se li sarebbe presi lei. Ma senza la Montecarlo, quella leggenda non sarebbe mai nata. Niente base tecnica, niente mondiale. La Beta Montecarlo fu un ponte sporco di fango tra la brutale HF e l’eleganza chirurgica della 037. Un codice genetico che oggi Lancia prova a risvegliare, con il recente ritorno nel mondo dei rally.

All’epoca, però, fu fraintesa. Troppo disciplinata per i ribelli, troppo sporca per quelli con la puzza sotto al naso. Né carne né pesce, dissero. Ma il tempo – quando ha pazienza – sa essere giustiziere. Meno di 9.400 gli esemplari prodotti tra Europa e Stati Uniti, molti inghiottiti dalla ruggine, dimenticati in garage, abbandonati nell’incuria. Eppure, chi ci ha creduto allora oggi sorride. Perché la Montecarlo è diventata un oggetto del desiderio. Una “Ferrari dei poveri”, l’hanno chiamata. Proporzioni da supercar, firma Pininfarina, sound da vera italiana. Emozioni sincere, ancora abbordabili: 25-40.000 euro per un buon esemplare. Occhio però: stanno salendo.

La si incontra nei raduni storici. Nei musei. Nei video dell’Heritage Stellantis. Alcuni collezionisti la riportano in pista, la spingono in cronoscalate, le danno la seconda possibilità che merita. Adesso, finalmente, qualcuno la guarda per ciò che è: una berlinetta onesta, sferzante, sexy. Mai mercificata. Solo strada, metallo, verità. I salotti? Mai vista. È rimasta sporca, oltraggiosa, testarda. E mentre tanti miti si sbiadiscono tra le foto ingiallite, la Montecarlo continua a mordere l’asfalto nei ricordi. Rifiuta gli applausi facili. Ti guarda, accende il motore e se ne va.